Tra il 2007 e il 2010 la sede di Scudit non era in Via La Spezia ma nell'area di Piazza Vittorio:
e a questa zona abbiamo dedicato questa lettura

Matdid: Materiale didattico di italiano per stranieri aggiornato ogni 15 giorni.
A cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi
   
   

Giulia Grassi

 

UN PASTICCIACCIO A
PIAZZA VITTORIO
 
 
 
Il mercato di Piazza Vittorio nella descrizione di Carlo Emilio Gadda



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  Fino al 2001 il nome Piazza Vittorio non viene associato al bel giardino creato alla fine del XIX secolo da Carlo Tenerari, e nemmeno ai grandi ruderi romani conosciuti come Trofei di Mario, ma a un
grande mercato all'aperto: decine di bancarelle, banchi fissi e carretti di ambulanti che vendono i prodotti più vari, per lo più di tipo alimentare. È un mercato molto popolare, con prezzi alla portata
di tutte le tasche, quindi è molto frequentato, e parecchi romani vengono a fare acquisti anche da
altri quartieri.
 
 
 

 
   
Il mercato era nato cento anni prima, nel 1902, come mercato ortofrutticolo. Nel tempo si era ingrandito e aveva completamente stravolto l'immagine della piazza ottocentesca. Non solo. I banchi dei rivenditori avevano finito per invadere la strada, già occupata dai furgoni dei commercianti e da macchine in doppia fila. La mattina, quando il mercato era aperto, il traffico era invivibile. E anche se nel pomeriggio l'area veniva ripulita, la funzione di "piazza", e quindi di luogo di incontro e di passeggio, era impossibile da recuperare, anche perché i giardini erano abbandonati e ridotti a una discarica.

La discussione sulla necessità di spostare il mercato per ridare valore alla piazza nasce intorno al 1964, ma ci vorranno quasi quarant'anni per risolvere il problema: nel 2001 le attività di vendita vengono spostate nella ex caserma Guglielmo Pepe. E Piazza Vittorio torna a vivere, e alla sua funzione originaria.

Una bellissima descrizione del mercato è in un libro scritto da Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957). È piuttosto difficile, perché è in dialetto romanesco, ma riesce a rendere molto bene lo "spirito" del luogo.
 

 
 
 
L'indomani alle dieci esatte il Biondone era in loco (dopo aver dato una giratina fra i palmizi): è l'ora che le donne sogliono provvedere a mercato, in vista non solo della cena, quanto anzitutto del pranzo alle cure loro imminente: l'ora delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermìfughe cipolle, e dei cardi, sotto la neve pazientemente ibernanti, degli odori, delle insalatine prime, dell'abbacchio. Gente che venneveno la porchetta su le bancarelle de piazza, quela mattina, ce n'era na tribbù. Da San Giuseppe in poi è la staggione sua, se po dì. Col timo e co li fiocchetti de rosmarino, e l'agli nun ne parlamo, e il contorno o il ripieno de patate co l'erbetta pesta. Ma il Biondo, a capo ciondoloni, si lasciò condurre tra i berci e le arance rosse dal suo dinoccolato ottimismo, sufolando in sordina, o atteggiandovi appena appena le labbra, tacendo a un tratto, levando un occhio in qua in là, come a caso. Oppure sostava chiotto chiotto, la lobbia giù a metà fronte, le mani in tasca, la gobba infreddolita sotto pastrano chiaro fresconcello, aperto, e dietro i due polsi cadente, da parer coda di marsina. Era un pastranuccio di mezza stagione fasulla, che tirava al peloso, e al morbido, e riusciva liso in più punti: contribuiva a definir l'immagine d'un bellimbusto assonnato, in cerca d'una cicca da poté fumà. Involtato nel turbine degli inviti e degli incitamenti alla compera e in tutte le conclamazioni di quella festa formaggia, trascorse piano piano davanti le bancarelle abbacchiare, oltrepassò carote e castagne e attigue montagnole di bianco-azzurrini finocchi, baffosetti, nunzi rotondissimi d'Ariete: ivi insomma tutta la repubblica erbaria, dove alla gara dei costi e delle profferte i novelli sedani già tenevano il campo: e l'odore delle bruciate in sul chiudere pareva, da pochi fornelli superstiti, l'odore stesso de l'inverno fuggitivo.
Su molti banchi gialleggiavano, oramai senza tempo e senza più stagione, le arance in piramidi, noci, nelle ceste, susine di Provenza nere, lustrate col catrame, susine di California: alla cui sola veduta gli rampollava acquolina dal retrobocca, al Deviti. Sopraffatto dalle voci e dai gridi, dalla stridula comminatoria di tutte le venditrici sindacate, pervenne alfine al reame antico ed eterno di Tullo e di Anco, ove adagiate sul tagliere prone o più raramente supine, o addormitesi di lato, a volte, le porchette dalla pelle d'oro esibivano i lor visceri di rosmarino e di timo, o un nòdulo qua e là verde-nero dentro la carne pallida e tenera, una foglia di menta amara pigiatavi a guisa di lardello con un gran di pepe, che la grida elaudava nel bailamme: “nuova ghiandoletta prestata loro a cucina, e ad altro mercato e ad altre fiere non saputa”. Non gli riuscì difficile ivi, dato l'ottimismo in poppa che lo andava sospingendo fra il vorticar delle femmine, oberate di reti colme o di sporta, fronzute di broccoli, non gli fu difficile ravvisare dalla descrizione della Ines, e già da qualche passo lontano il tipetto, il gentil trombetto che faceva proprio al caso suo.
Era un dritto, dietro la bancarella, con du occhi! il contrario, in quel momento, della paura e della timidezza che aveva decantato la Ines, e con la zazzera fitta fitta e straunta tutta da una banda: insieme a la nonna, stava. A la cima, ricaduti un poco su la fronte, i fili dei capelli s'erano arricciolati come insalatina dopo il capriccioso ritocco del pettine, o come il rotolo d'una lama di maretta allorché la ribolle un attimo prima d'impigliarsi a recedere, e abbandona infine la rena. Una parannanza bianca lo affagottava un tantino e tramente strillava stava a affilà li cortelli, uno lungo uno corto, e intanto lo guardava a lui, ar Biondone, ma senza dà segno de vedello: quer capoccione bionno scuro, co quaa lobbia de cavadenti specialista che je scegneva fino sur grugno, je s'era piazzato avanti a debbita distanza co le mano in saccoccia: era de sicuro uno che ciaveva la fantasia de magnà la porca, ma si nun teneva li sordi, povero micco, poteva puro morì da la voja.
"La porca, la porca! Ciavemo la porchetta, signori! la bella porca de l'Ariccia co un bosco de rosmarino in de la panza! Co le palatine de staggione!” (la staggione se la sognava lui, erano le patate vecchie fatte a pezzi, tutte puntolini di prezzemolo, inficiate nella grascia della porca). “Palatine de staggione, sori cavajeri e consijeri, sore spose mie belle! che so' mmejo che l'ova toste pe l'insalata. Mejo dell'ova de li capponi so', ste patate. V'oo dico io. Assaggiatele!” Posava un attimo da riprender fiato. E poi, a scoppio: “Uno e novanta l'etto, la porca! È 'na miseria, signori! robba da fa vergogna, signori! a chi venne e a chi crompa! Uno e novanta l'etto, più mejo fatto che detto. Famese avanti co li baiocchi a la mano, sore spose! Chi nun magna nun guadagna. Uno e novanta l'etto, la porca! Carne fina e dilicata, pe li signori propio! Assaggiatela e proverete, v' 'o dico io, sore spose: carne fina e saporita! Chi prova ciariprova, er guadambio è tutto vostro. La bella porca de li Castelli! L'emo portata a balia a la macchia: a la macchia de Galloro, l'emo portata, a mmagnà la ghiandola de l'imperatore Calìgula! la ghiandola der principe Colonna ! Der gran principe de Marino e d'Albano! ch'ha vinto tutti li peggio turchi pe mare e pe terra a la gran battaja de Levati da li piedi! Che ar domo de Marino ce stanno ancora le bandiere! co la mezzaluna de li turchi, ce stanno! La bella porca, signori! porchetta arrosto cor rosmarino! e co le patate de staggione!” : e dandosi requie dopo la strillata, a parte fatta anche l'attor tragico posa, ripigliò serio serio a affila li cortelli.
Ma doppo du bòtte a li cortelli ebbe un ritorno di fiamma: un sussulto lo scosse. Fu il deflagrare d'una ulteriore variazione, o tale parve all'agente. Ad occhi bassi: “ Provatela, signori, assaggiatela! P'uno e novanta l'etto ve fate na magnata de porca, che vostra moje v'aringrazzia!” Poi, a una belloccia, discendendo di tono: “Che volete, bella pupa?”, la pupa a quel tono d'autorità non poté comprimere le risa, “na mezza libbra de porchetta?” E sottovoce a lei, ma con un'occhiata a lo squattrinato cavadenti: “A voi ve do er mejo boccone, v' 'o giuro! Me piacete troppo! Sete troppo bona! Un bocconcino arrostito apposta pe voi, co du patate!” Poi di nuovo, eternamente berciando e con occhi al cielo stavolta e con delle gote da buccinatore senza senso: “Fàmese a crompà la porca, signori! Fàmese a caccià li sordi, ch'è la vorta bona, signori! ch'è na vergogna lassalla qua sur banco che a momenti aripiove, che cioo so che ce n'avete un sacco in saccoccia, de baiocchi. Famo annà via la migragna, signori! La porca è vostra, si è che cacciate li baiocchi.”

La nonna, ora, si nonna era, ciurmandola di bilancia alegra e di chiacchiera, dava ogni sodisfazione alla rubiconda servotta. E lui: “Uno e novanta l'etto! La porca d'oro, la porca! ”Ma intanto quer cavadenti d'un Biondone t'oo seguitava a guardà, dopo aver buttato indietro er copricapo, scoperta dunque la fronte, che apparve tutta fiammeggiata di una stoppa irta e rubella, tra il biondo, giusto, e il castano.
Gli si erano rizzati ai fianchi du figuri, du tipi de pizzichini un ber po' più scuri de lui, uno de qua uno de là, come i silenti gendarmi che Pulcinella percepisce dopo un po', in uno sgomento improvviso ma ritardato sull'azione. Sicché quello, er maschietto, a poco a poco, “signori signori, uno e novanta l'etto, la porca la porca, sì, sì, la porca, ho capito!” pareva dire a se stesso, ma abbassava la voce sempre de più, “a por-ca,” sillabò esangue, “'a por...” e quel po' di fiato gli smoriva nella gola: come la luce sempre più querula e falba di un moccolaccio quanno che sbava cera e se strugge tutto, in un lago de puzza, co un codino fritto ner mezzo. Con addosso queli fanaloni, che tutt'a un tratto s'ereno mortipricati pe tre. Sicché, capirete: quanno capì si de che gente se trattava, era troppo tardi pe squajassela. Posò li cortelli sur banco, susurrò a la nonna “me vonno” : già se slegava la parannanza. Je tremaveno le gambe. Je toccò fa bella cera ar Biondone, che senza fasse vede aveva sfoderato na carta, na tessera, e je diceva a mezza voce nell'atto che je lo stava a regge sotto l'occhi, quer ber talismano: “Hai da venì un momento in questura: si stai zitto nessuno se n'accorge! Questi so' du aggenti in borghese, ma si preferisci t'accompagno io, senza disturballi a venì de scorta. Sei Lanciani, Lanciani Ascanio, si nun me sbajo.” Je toccò, sicché, pe nun fa storie, piantà porchetta e cortelli, e lassaje tutto a la zia... a la nonna: era là, dura, impalata, co un occhio pieno d'inquietudine a la folla, che trascorreva distratta.
[......]
Uscirono da la confusione verso via Mamiani o via Ricasoli: c'era un passaggio tra le bancarelle de li pesciaroli e de li pollaroli, indove che vénneno li calamari e li totani e tutte le qualità d'inguille e d'aguglie che stanno a mare, nun pariamo de l'arselle. Il tipetto, e lui stesso il Biondone, sguardarono a quelle polpe molli d'un argento-chiaro madreperla de li calamari (così delicatamente brunito nelle venature interne), annasarono senza pur volerlo odor d'alighe marine da tutto il fresco umidore, quel senso di cielo e di libertà cloro-bromo-jodica, di mattina viva alle darsene, quella promessa d'argento fritto nel piatto per la fame che già chiamava dal profondo. Rotoli di trippe lesse l'un sull'altro come tappeti arrotolati, gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito, ma terminato nel ciuffetto, a significarne in modo veridico la nobiltà: “pe quattro lire v'oo do tutto,” diceva l'abbacchiare presentandolo a mezz'aria, tutto cioè mezzo: e i bianchi cespi de la lattuga romana, o insalatine ricciolute tutte riccioli verdi, polli vivi coi loro occhi che smicciano da un lato solo e vedono, ognuno, un quarto del mondo, galline vive chiotte chiotte stipate nelle loro gabbie, o nere o belghe o padovane avorio-paglia, peperoni secchi gialloverdi, rossoverdi, che al mirarli solo ti pizzicavano la lingua, ti mettevano in salive la bocca: e poi noci, noci di Sorrento, nocciuole di Vignanello, e castagne a mucchi. Addio, addio. Le donne, le polpute massaie: lo scialle scuro, o verde erba, una spilla da balia co la punta aperta, ahi! da pinzar la poppa alla vicina d'un attimo: così fan tutte. Polponi semoventi, esse ambulavano a fatica da uno spaccio e da un ombrellaccio al successivo, dai sèlleri ai fichi secchi: si rivolvevano, si strofinavano i rispettivi gregori l'uno all'altro, annaspavano ad aprirsi il passo, con borse ricolme, soffocavano, boccheggiavano, grasse carpie in una piscina-trappola dove l'acqua a poco a poco decèda, stipate, strizzate, intrappolate a vite con tutta la lor ciccia nei vortici della gran fiera magnara.