SCUDIT, SCUOLA D'ITALIANO ROMA, PRESENTA MATDID, MATERIALI DIDATTICI DI ITALIANO PER STRANIERI A CURA DI ROBERTO TARTAGLIONE E GIULIA GRASSI


 

Materiale: n. 316 -  Data: 01.11.2018  - Livello: insegnanti (per A1)
Autore: Roberto Tartaglione

 

PRIMA LEZIONE
NOTE PER L'INSEGNANTE


Sette cose da ricordare, sette obiezioni con risposte e sette suggerimenti.

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ATTENZIONE ATTENZIONE ATTENZIONE

Questo materiale riproduce in modo sistematico quello che si può fare (certo, non quello che si "deve" fare!) in una classe beginner di adulti il primo giorno di lezione, senza mai usare la lingua degli studenti e dando agli studenti le chiavi per ampliare progressivamente lessico, strutture e capacità comunicative in modo corretto.


 

01  TUTTO ORALMENTE

Questo procedimento può funzionare bene (solo) se fatto oralmente: i vari passi, le varie domande e risposte, tutto deve essere fatto parlando, con gli occhi dell’insegnante rivolti agli studenti e quelli degli studenti rivolti all’insegnante. Molto meglio se gli studenti non usano per niente carta e penna, se non hanno fogli o fotocopie a cui chiedere aiuto, ma come supporto solo la lavagna su cui l’insegnante scriverà (a stampatello e in modo perfettamente leggibile) quello che ritiene utile.

Dare agli studenti le fotocopie di questo materiale all'inizio della lezione
NE CANCELLA INEVITABILMENTE L'UTILITÀ.
Eventualmente si possono dare ALLA FINE della lezione per il ripasso a casa.

 

02   PROGRESSIONE

L’utilità del materiale è nel procedimento, nella progressione. Se invece di gatto, naso o scarpa si preferisce usare qualche parola riferita a oggetti cosiddetti hic et nunc,  cioè presenti in classe (penna, quaderno o bottiglia) non cambia evidentemente nulla, purché i sostantivi utilizzati siano sempre in –o e in –a e facilmente riconoscibili, identificabili, comprensibili. Ovviamente da evitare sono i nomi in –e (verranno subito dopo) e le parole astratte (non è il momento).

Per “procedimento” intendiamo i seguenti passaggi che, nel materiale di partenza, sono corredati di suggerimenti e di esercizzi per la automatizzazione:
 

1 Come ti chiami? - Io mi chiamo…
2 Come si chiama questo in italiano? - Questo si chiama…
3 Come si dice? - Si dice…
4 E’ maschile? - Sì, è maschile perché finisce con –o
5 E’ un …? - No sono due …
6 Di che colore è/sono? – È rosso, sono rossi
7 Di che nazionalità è/sono? - È italiano, sono italiani

 

03   FRASI CHIAVE E RISPOSTA VINCENTE

Seguendo lo schema in modo rigoroso non ci sarà mai bisogno di usare lingue diverse dall’italiano. Parole straniere possono naturalmente comparire nelle formule legate all’espressione “come si dice?” (“Come si dice book in italiano?” può chiedere uno studente. “Book in italiano si dice libro” può rispondere l’insegnante).
Tutte le conversazioni illustrate propongono quindi “frasi chiave” alle quali è bene attenersi senza digressioni. Solo due “frasi chiave” non sono riportate nei testi ma sarà bene comunque “darle” agli studenti, magari scrivendole sulla lavagna. Si tratta di:

Non lo so
Non ho capito

Sono frasi che permettono agli studenti di “uscire vincenti” anche da una situazione di svantaggio (non so come si chiama questo in italiano, non riesco a capire quello che ha detto l’insegnante).
Se il procedimento viene seguito con cura nessuno studente resterà mai deluso dalla propria capacità di apprendimento. La non-conoscenza di una parola sarà risolta da una frase come “Come si dice in /mia lingua/?” o anche da un “Non lo so”. 
L’insegnante farà in modo comunque che sulla lavagna siano scritte sempre le parole importanti in modo che non sia necessario stare a combattere con problemi di memoria. Non si tratta infatti di memorizzare libro, tavolo o sedia ma di automatizzare strutture espressive.
Se uno studente non risponde correttamente l’insegnante non deve chiedersi dove sbaglia lo studente: deve chiedersi invece dove ha sbagliato lui stesso. Ogni errore dello studente è in realtà un errore dell’insegnante. Le risposte devono essere sempre "vincenti".

 

04   SEMPRE IN ITALIANO
Si è detto che seguendo lo schema in modo rigoroso non ci sarà mai bisogno di usare lingue diverse dall’italiano: non si parla però di un marziale “divieto di usare lingue straniere in classe”. Piuttosto che “avvitarsi” in discutibili esibizioni mimiche o di perdere inutilmente tempo davanti a un avverbio di cui gli studenti chiedono spiegazione, mille volte meglio la traduzione. Il “buon insegnante” dovrebbe però in questi casi domandarsi dove non ha funzionato il suo modo di procedere: se la progressione viene infatti seguita in modo corretto NON dovrebbe mai crearsi una situazione del genere.
Quindi diciamo: lo studente ha le chiavi per non usare mai lingue diverse dall’italiano. L’insegnante può farlo in caso di necessità, ma quel “caso di necessità” è sintomo di qualche imprecisione procedurale.

 

05   IL TU E IL LEI
In questo materiale si è scelto di usare l'allocutivo TU con gli studenti. Nulla vieta di usare il LEI.
La scelta del TU è qui determinata dal fatto che abbiamo voluto semplificare al massimo le cose.
La seconda persona del presente indicativo infatti è più semplice perché in tutti i verbi ha sempre la terminazione -i. Usando il LEI di cortesia troviamo invece casi dove la terminazione è -a (lei canta, lei parla, lei cammina) e altre dove la terminazione è -e (lei scrive, lei dorme, lei vede). Poco male, perché per il momento è tutta automazione e quindi una forma o l'altra vengono comunque acquisite senza particolari riflessioni. Tuttavia nelle lezioni successive la scelta della forma di cortesia potrebbe provocare qualche (piccola e superabilissima) complicazione in più che per il momento ci sembra opportuno evitare.

 

06   POSTURA
Ogni lezione, ogni classe, ogni insegnante ha ovviamente una sua individualissima personalità irripetibile. Impossibile quindi sostenere “atteggiamenti” validi in ogni situazione. Tuttavia questa fase di insegnamento (se non in tutti, almeno nella stragrande maggioranza dei casi) prevede che l’insegnante sia sempre in piedi e mai seduto, sia possibilmente sempre “in movimento” e quindi costringa gli studenti a seguirlo con gli occhi (il movimento del collo per seguire i movimenti dell'insegnante è anche un ottimo antidoto a eventuali tendenze anestetiche). Le domande, fatte a ritmo sostenuto, ripetute ma imprevedibili riguardo al destinatario, vanno poste agli studenti in modo serrato: è buona norma porle prima a chi prevedibilmente risponderà subito in modo adeguato e poi a chi, prevedibilmente, potrebbe avere più difficoltà. Evitare di fare domande agli studenti seguendo l’ordine in cui sono disposti in classe: se nessuno sa quando “toccherà a lui”, nessuno potrà distrarsi o perdere la concentrazione aspettando il proprio turno.
Evitiamo comunque di creare tempi morti e imbarazzanti silenzi: se uno studente esita molto prima di dare una risposta bisognerà trovare qualche soluzione, soprattutto se quel silenzio mostra uno stato di frustrazione o di imbarazzo (chi di noi non ricorda quelle terribili situazioni scolastiche in cui il professore faceva una domanda, noi non sapevamo rispondere e lui continuava a guardarci gelido, in silenzio, per lunghissimi secondi, come aspettando una risposta che sapeva benissimo non sarebbe mai arrivata?).

 

07   INSEGNARE A IMPARARE
Che reazioni possono avere gli studenti davanti a una lezione impostata così?
La reazione più normale è quella di credere che si debbano "imparare a memoria parole": borsa, cappello, gatto, tavolo. Del resto gran parte delle domande è del tipo "come si chiama questo, come si dice questo?". E di solito leggiamo negli occhi dei principianti quasi l'angoscia per la memoria messa alla prova: "Me l'ha detto due minuti fa che questo si chiama tavolo e adesso non me lo ricordo!".
Ecco: va bene anche se gli studenti pensano questo. Ma è importante che noi sappiamo che non è questo il punto. Le parole borsa, cappello, tavolo o sedia possono essere scritte sulla lavagna e quando il principiante deve dirle possiamo benissimo indicargliele col dito (e così superiamo l'angoscia). Quello che noi insegnamo è una struttura: "Questo in italiano si chiama tavolo", "Hat in italiano si dice cappello". Bisogna insomma insegnare a imparare, a imparare formule nel modo più corretto possibile perché in questa fase in cui si acquisiscono i primi automatismi gli errori che si consolidano sono quelli che più difficilmente si riusciranno a estirpare in futuro.

OBIEZIONE 1
Nella lingua parlata "come ti chiami?" non è l'unico modo per chiedere il nome di una persona. E a questa domanda  si danno risposte diverse: mi chiamo, io mi chiamo, il mio nome è, oppure si risponde semplicemente dicendo il nome. Pretendere la risposta io mi chiamo... è falsare l’autenticità della lingua


A parte le lunghe considerazioni che potremmo fare sulla “lingua autentica” (noi preferiamo eventualmente parlare di lingua “autoriale”, ma non è questo il momento di dilungarci sull’argomento), la risposta io mi chiamo è quella preferibile perché:
a) è certamente corretta
b) abitua gli studenti a rispondere utilizzando in parte gli elementi della domanda (e specialmente nelle prime lezioni il compito dell’insegnante non è tanto quello di insegnare la lingua ma quello di insegnare a imparare una lingua, come abbiamo detto)
c) Il verbo chiamarsi è il più frequente per “dare un nome” alle cose: io mi chiamo, questo si chiama, come si chiama ecc.
Fra l’altro si introduce l’abitudine a non farsi troppe domande: non parliamo di verbi riflessivi, non alludiamo alle coniugazioni: mi chiamo serve a dire il mio nome, ti chiami serve a chiedere il tuo nome, si chiama serve a dire il nome di qualcuno o qualcosa. Questo qualcuno o qualcosa è un lui/lei (se si tratta di persona) o un questo/questa (se si tratta di cosa). Non c’è altro.
d) questa è una lezione di italiano, non il remake di un film neorealista. Se scegliamo formule espressive non necessariamente identiche a quelle pronunciate in un bar non è un reato: nessun cantante lirico durante un'opera gorgeggia come fa nei suoi esercizi di preparazione. E nello stesso tempo non si prepara a eseguire l'opera cantando immediatamente "Casta diva".

 

OBIEZIONE 2
Tavolo è maschile perché finisce con –o! Sedia è femminile perché finisce con –a! Si tratta di frasi scandalosamente grammaticali, si tratta di metalingua: la frequenza d’uso è bassa, le formulazione di questi enunciati è contronatura e per giunta lo schema grammaticale (-o -a -i -e) precede la proposta di materiali da cui gli studenti potrebbero intuire la regola.

Suona davvero paradossale che proprio chi sostiene la necessità di insegnare la lingua viva e autentica sia poi propenso a sollevare obiezioni di questo genere. Infatti:

a) Che cosa c'è di più autentico e vivo che parlare della lingua il primo giorno di lezione di lingua in una classe di lingua? Forse è più autentico fare le presentazioni e sentirsi dire da una persona che è di una certa nazionalità, di una certa città, che fa l'mpiegato e che ha due figli? Quasi ce ne importasse qualcosa?

b) Da quando si è definitivamente appurato che la grammatica non è assolutamente un elemento determinante nell'acquisizione di una lingua,
l'ossessione grammaticale degli antigrammaticalisti è a volte paradossale: tavolo è maschile perché finisce con -o è una frase estremamente collegata al contesto-classe, è una struttura di altissima utilità, introduce il fatto che in italiano la stessa parola "perché" si usa nelle domande e anche nelle risposte, introduce il verbo finire che, per la sua diffusione internazionale è comprensibile ai più, abitua l'orecchio ai verbi in -isco che sono molto più frequenti dei normali verbi in -ire cosiddetti regolari, trasmette l'idea che esistono reggenze verbali (finisce con) sollecitando l'attenzione sul fatto che determinati verbi si costruiscono con determinate preposizioni (cosa che in futuro ci tornerà molto utile!), maschera tutto questo con l'illusoria convinzione che l'insegnante voglia sapere se lo studente ha capito che i nomi in -o si chiamano maschili e quelli in  -a si chiamano femminili.
Diciamoci la verità: uno studente medio capisce
che i nomi in -o si chiamano maschili e quelli in  -a si chiamano femminili un minuto dopo che l'insegnante gliel'ha detto. E del resto se invece che maschili e femminili li chiamassimo bianchi e neri, alti e bassi, oppure grassi e magri andrebbe benissimo lo stesso. Il punto è esercitarsi a parlare, a parlare correttamente, con frasi "sempre vincenti" (ripetendo queste frasi mille volte durante la lezione nessuno si sente "meno adeguato" degli altri) e con la opportuna correttezza: rifiutiamo la risposta "tavolo-maschile-o" perché sappiamo benissimo che lo studente ha capito (ci mancherebbe!), ma vogliamo che sappia dire in italiano quello che ha capito. Il linguaggio da ET-telefono-casa non è il nostro obiettivo.

c) Che le strutture possano essere acquisite dagli studenti attraverso il diretto confronto col materiale didattico è utile e certamente consigliabile in numerosi casi. Noi stessi qui lasciamo all' "intuito" degli studenti la decodificazione di frasi come "finisce con" e "si dice"; addirittura non ci sono particolari spiegazioni delle forme del verbo essere è/sono. Ma giocare con l'intuizione del genere dei sostantivi in -o (maschili) e in -a (femminili) per il puro piacere di non dare preventivamente uno schema facilissimo, sarebbe come chiedere a un amico di venirci a trovare dicendogli il nome della strada dove abitiamo e non il numero civico. Tanto se bussa a tutte le porte prima o poi ci troverà.

Se si vuole chiamarla metalingua o retaggio di sistemi grammatical traduttivi condannati dalla storia si può farlo. Ma chi non sa staccarsi dall'ossessione grammaticale è proprio chi fa questa obiezione, non chi dice che "tavolo è maschile perché finisce con -o"!
 



 

OBIEZIONE 3
Il gioco è ripetitivo, quasi berlitziano. La classe si annoia se ripeto cento volte lo stesso schema.

Non esiste una classe che si annoia ma solo un insegnante che è noioso.

 

OBIEZIONE 4
Una lezione del genere trascura l'elemento culturale: le lingue rispecchiano la cultura del luogo in cui sono parlate e in questo primo approccio all'italiano non c'è nessun riferimento alle caratteristiche proprie dei nativi.

Sostenevamo che la dimensione culturale nell'insegnamento dell'italiano è un elemento fondamentale per la sua didattica quando i nostri obiettori ancora combattevano con i complementi di causa efficiente.
Ritenere però che la nostra cultura "vada insegnata" in un corso di lingua così come si insegna a un gatto a fare i propri bisognini nella lettiera è quanto di più anticulturale (e perfino di antiitaliano, direi!) possa pensarsi.
Siamo in una "prima lezione". Come insegnanti ci poniamo in primo luogo il problema di:
- insegnare qualcosa che riteniamo utile
- guadagnarci la fiducia degli studenti
- creare una dinamica comunitaria nella classe

Per raggiungere questi tre obiettivi c'è una sola possibilità: comunicare con gli studenti.
Ma parliamo del "comunicare" vero, e cioè di "mettere in comune" con la classe qualcosa; non parliamo dell'insulso chiacchiericcio che troppo spesso viene definito "comunicazione". Questo qualcosa da mettere in comune è noi stessi, il nostro ruolo, la nostra personalità, la nostra cultura.
(Bizzarro effettivamente che si parli di corsi di lingua che permettono di "raggiungere la comunicazione". La comunicazione è un presupposto, non un fine! Se non comunico fin da subito, difficilmente i miei studenti impareranno l'italiano).

I miei studenti vedono in me una persona che si muove in un certo modo, che parla con una certa musicalità e un determinato timbro di voce, che è vestita in un certo modo, che ha un preciso sguardo. Su questo si basa la prima forma di comunicazione e su questo vale la pena giocarsi le prime carte: gli studenti diranno "mi piace/non mi piace" prima di tutto per questi elementi di comunicazione.
Elementi che, pur non andando "contro" la mia personalità, come insegnante posso almeno in parte manipolare e comunque non lasciare al caso.
Non è casuale il mio vestito: qualunque esso sia, dal formale più serioso allo sportivo più alternativo è questa la prima immagine della mia comunicazione. Non sarà casuale il mio volume di voce sempre abbastanza alto da non costringere chi è seduto lontano a sforzare più il talento uditivo che quello linguistico. E soprattutto non sarà lasciato al caso il mio comportamento in chiave interculturale: sappiamo che nella cultura dei nostri studenti un professore non è mai autorizzato ad avvicinarsi troppo allo studente e ancor meno a mettergli una mano solla spalla? Bene, sarà nostra scelta se adeguarci alla cultura dello studente (magari mostrando furbescamente la nostra "competenza interculturale") oppure in modo fintamente ingenuo e sempre estremamente moderato trasgredire la sua "norma culturale" sorprendendolo con un comportamento o un gesto per lui inconsueto.
In questa fase non "facciamo lezioni di cultura": siamo modelli culturali.
Mal digerite teorie sulla "centralità dello studente" hanno emarginato a tal punto il ruolo dell'insegnante come elemento attivo della lezione che quasi ci si dimentica che in qualunque tipo di "educazione" il modello proposto supera di gran lunga ogni enunciazione teorica o descrittiva.
L'insegnante può porsi alla classe come "stereotipo dell'italianità" (sono italiano e quindi canto canzoni d'amore, mangio gli spaghetti e tifo per una certa squadra); può porsi come anti-stereotipo (sono italiano ma non è vero che "noi" siamo in un certo modo: sono stonato come una campana, detesto il calcio e quanto al mangiare sono vegano!). O posso, con controllo, romanzare la mia personalità individuale (canto bene ma non mangio pasta e il calcio mi interessa solo un po'). Ma in qualunque caso questo mio "pormi" davanti alla classe sarà il primo elemento culturale che impatterà con gli studenti.
E specialmente nella prima lezione questo è fondamentale: come nella vita "reale" gli elementi e le impressioni delle "prime esperienze"  restano particolarmente impressi. Su questo ci giochiamo gran parte del futuro (didattico).

(Prime esperienze culturali che colpiscono: come quella giovane studentessa olandese che il primo giorno a Roma, a causa di un terribile male al braccio, è andata a farsi visitare da un dottore e il giorno dopo mi ha detto: "Come siete espansivi voi italiani: dopo la visita il dottore mi ha salutato con due baci sulle guance. In Olanda non fanno così!")

 

 

OBIEZIONE 5
Il procedimento è estremamente rigido: non ci sono nemmeno le formule di saluto (buongiorno, ciao ecc.)

Il procedimento è rigido, d'accordo. Ma non abbiamo scritto da nessuna parte che non si possa o debba dire "buongiorno" agli studenti quando si arriva, stringere la mano alle persone quando si dice "io mi chiamo...", dire "arrivederci" quando si va via. Certo: non abbiamo concepito la prima lezione come una lezione sulle presentazioni. Ma (e basta leggere quanto scritto nel paragrafo "obiezione 4") nessuno ha proposto di cancellare elementi culturali e perfino di buona educazione.
La comunicazione (quella vera!) è fatta di mille dettagli non linguistici (gestualità ecc.) e di mille dettagli linguistici non direttamente connessi al linguaggio referenziale: l'uso di interiezioni (eh, eh?, ah!, ehi, eheh ecc.) e di segnali discorsivi (allora...), così come quello dei saluti o delle normali formule di convivenza, non è certo sconsigliato.
La rigidità del procedimento, eventualmente sta nella selezione del lessico (nomi in -o e nomi in -a), non tanto per rispettare chissà quale teorema grammaticale, ma solo per evitare domande inopportune da parte di studenti che potrebbero chiedesi perché cane, con quella terminazione in -e, non sia un plurale (femminile). E perfino se si decidesse di non rispettare la nostra rigida progressione non ci sarebbe nessuna catastrofe. Noi consigliamo questa solo per "ottimizzare" i tempi. 
 

 

OBIEZIONE 6
I miei studenti sono di lingua neolatina: queste cose le capiscono in due minuti. Oppure: i miei studenti sono di lingue molto diverse dall'italiano: questo materiale non è sufficiente.

Se si desse retta a tutti coloro i quali dicono "Tu non sai come sono i miei studenti!", bisognerebbe elaborare materiali didattici personalizzati per ciascuno studente non solo in base a nazionalità e età (il nostro materiale è comunque per studenti dai 16/17 anni in su), ma anche per titolo di studio, interessi culturali, numero di lingue straniere conosciute, sesso, religione, e perfino umore quotidiano.
Non abbiamo parlato di "tempi" per l'utilizzazione di questo materiale proprio perché, a seconda della tipologia di studenti in classe, possono essere molto diversi. Ma il problema non è stabilire che "con gli spagnoli questo procedimento deve occupare 30 minuti di lezione e con i giapponesi quattro ore". Il problema è che l'insegnante deve valutare (e solo lui può farlo) quando gli elementi che si vogliono insegnare sono davvero fissati ed acquisiti (si badi che non abbiamo detto "capiti").
Compito per niente semplice! Proprio perché se una classe è fatta di spagnoli un (cattivo) insegnante può essere portato a trascurare la correttezza formale degli enunciati (chiaro che uno spagnolo capisce tutte queste frasi in un battibaleno): da questa fase didattica, invece, anche lo spagnolo potrà uscire solo quando la formula io mi chiamo o si dice è realmente automatizzata. Se dopo trenta minuti ancora dice "*io mi chiama" o "*se dice" significa che ancora non ci siamo.
Allo stesso modo un (cattivo) insegnante può essere portato a sottovalutare l'acquisizione di strutture da parte di studenti con lingua di partenza distante dall'italiano (chiaro che un giapponese avrà più difficoltà a memorizzare queste formule). Tuttavia se dopo un paio di ore uno studente giapponese non è ancora arrivato alla perfetta automatizzazione e memorizzazione delle formule in questione ma ha comunque acquisito una discreta autonomia espressiva, potremo comunque dichiararci soddisfatti e andare oltre.
Nonostante negli ultimi anni il ruolo dell'insegnante tenda ad essere sempre più marginalizzato (addestratore, esercitatore, controllore della flipped classroom e altre orripilanti cose di questo genere) ringraziando il dio dei glottodidatti esistono scelte e decisioni di chi insegna che ancora non possono essere sostituite da un software informatico o dalla valutazione numerica scaturita da un test: fra queste scelte c'è il riconoscimento della reale acquisizione e la valutazione del momento in cui "andare oltre" che non necessariamente deve coincidere, appunto, con quello della reale acquisizione.
Questa procedura dunque, in una classe di veri "principianti assoluti", dura di solito da trenta minuti a due ore. E tuttavia anche questa scansione temporale può essere violata senza remore.

 

OBIEZIONE 7
I miei studenti, se parli solo italiano, reagiscono male: hanno bisogno di rilassarsi ogni tanto, di parlare la propria lingua con l'insegnante, almeno per fare delle domande che in italiano non sono in condizione di fare.

Non vediamo proprio il motivo per cui gli studenti debbano fare delle domande in questa lezione. Se hanno problemi di carattere organizzativo o amministrativo possono rivolgersi in segreteria. Se hanno domande su questioni linguistiche non relative alla prima lezione è ottima cosa che non le sappiano formulare perché rispondere a quelle domande sarebbe solo una pardita di tempo. Se hanno domande relative alla lezione (che non siano esprimibili attraverso "come si dice, come si chiama?") significa che l'insegnante ha fatto qualche "errore" e quindi è bene che non le facciano perché potrebbero svelare la nostra manchevolezza.

 

SUGGERIMENTO 1: la lavagna che ci piace

La lavagna ci piace fintamente disordinata: tutto è scritto a stampatello, con caratteri ben leggibili. Ma le parole non sono in ordine come in una pagina di libro o in uno schema di appunti. Lo studente, mentre parla o risponde alle domande dell'insegnante, non dovrà mai avere problemi di comunicazione per la "mancanza" di una parola. Non è importante se non ricorda il sostantivo casa o libro. Potrà sempre trovarlo sulla lavagna. Ma dovrà un po' cercarselo, saperlo scegliere fra altre parole.

 

SUGGERIMENTO 2: la lavagna che non ci piace

 

La lavagna che non ci piace è troppo ordinata. Questa nell'immagine poi ha parole scritte in corsivo, cioè con caratteri meno leggibili. Nello stesso tempo quell'ordine che sembra imitare una pagina stampata rende la sua consultazione simile a quella di un libro o di un dizionario. Insomma non è più un punto di appoggio per completare qualche enunciato orale ma un normale testo di studio, da leggere senza sforzo e magari da imparare a memoria.

SUGGERIMENTO 3: la classe che ci piace

Nella classe che ci piace gli studenti possono guardarsi in faccia fra loro.

SUGGERIMENTO 4: la classe che non ci piace

Nella classe che non ci piace tutti gli studenti sono rivolti verso l'insegnante ma fra loro si danno le spalle

SUGGERIMENTO 5: altre parole che capiscono (quasi) tutti

 

aereo cristiano minuto pizza
banca espresso musica scuola
benzina festa numero sigaretta
cappuccino fotografia palazzo stato
cioccolata mafia passaporto telefono
cornetto mamma pasta vino

 

SUGGERIMENTO 6: un libro di grammatica e un libro sul lessico che ci piacciono (... naturalmente)



                       

 

SUGGERIMENTO 5: una scuola che ci piace (...naturalmente)