Matdid: Materiale didattico di italiano per stranieri aggiornato ogni 15 giorni.
A cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi

 
   

Arianna Fioravanti
 

SUL SESSISMO DELLA LINGUA

 
Appunti di Arianna Fioravanti e una nota di Roberto Tartaglione
 
 
 

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Sotto la spinta di alcuni principi teorici elaborati da studiosi, linguisti e intellettuali (e da donne naturalmente) per la maggior parte provenienti dall’ambito culturale da cui prese avvio il movimento femminista degli anni Settanta, nel 1993 è stato pubblicato un opuscolo ufficiale che ha suscitato numerosi dibattiti e controversie tra linguisti e non solo. 
Il libretto si intitola "Il sessismo nella lingua italiana". 
A scatenare le polemiche sono state soprattutto le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua incluse nel terzo capitolo dell’opuscolo, il quale, ricordiamolo, veniva pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e curato da Alma Sabatini.

Ma cosa è il sessismo? Il sessismo è la tendenza a
giudicare le capacità e le attività di una persona in base al sesso, cioè ad attuare una discriminazione sessuale che nella maggioranza dei casi è a sfavore della donna. Scopo di queste raccomandazioni era quindi quello di dare suggerimenti "compatibili con il sistema della lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana". 
 
Insomma: tentare di combattere la discriminazione sessuale nei confronti delle donne attraverso la demolizione dell’egemonia delle forme maschili all’interno del sistema linguistico. A dirla con l’autrice dell’opuscolo, ciò che conta non è quindi "il puro e semplice uso della parola diversa come lip service, bensì un cambiamento più sostanziale dell’atteggiamento nei confronti della donna, un senso che traspaia attraverso la scelta linguistica".  
 
È appunto nel terzo capitolo che troviamo le famigerate raccomandazioni, organizzate in due colonne di parole: una contrassegnata in alto da un NO e l’altra da un SÌ. La prima schiera comprende le parole da evitare, la seconda le forme consigliate.  

Tra le forme da evitare troviamo subito diritti dell’uomo, caccia all’uomo, uomo della strada, paternità di un’opera da sostituire con i rispettivi e più democratici: diritti umani, caccia all’individuo o alla persona, individuo della strada, maternità di un’opera. Tutte forme che, nell’uso attuale, farebbero sorridere. 
Particolare attenzione è prestata anche alla posizione che il sostantivo femminile occupa all’interno della frase: l’ordine fratelli e sorelle andrebbe senz’altro capovolto a favore del più galante sorelle e fratelli. Così come è preferibile, anzi raccomandabile, usare il popolo romano, ateniese, inglese… in luogo di i romani, gli ateniesi, gli inglesi
e così via.

L’eccesso di maschilismo rappresentato dall’accordo al maschile del participio passato in presenza di sostantivi di genere misto (Marco, Maria, Anna e Francesca sono andati) è invece risolto nel modo seguente: bisogna accordare il participio passato con l’ultimo sostantivo della serie e non obbligatoriamente con il maschile. 
Si auspica inoltre l’epurazione dal dizionario di parole ritenute correntemente del tutto innocue, come "signorina" (a meno che non sia rivolto a una donna in età avanzata!), in quanto sostantivo "dissimetrico rispetto allo scomparso signorino".  

Un campo particolarmente sensibile ai problemi del sessismo è quello delle professioni, dei mestieri e delle cariche sociali. Senza troppi giri di parole, l’autrice dell’opuscolo ci sprona subito a "prendere una posizione, scegliendo forme femminili accettabili e di pari valore linguistico alle corrispondenti forme maschili".

Di seguito, una succulenta lista di suggerimenti che a oggi non ha ancora ricevuto nessun favore da parte dei parlanti e degli scriventi, a eccezione di qualche sporadica e per nulla stabile comparsa in notiziari e giornali (tra parentesi sono indicate le forme proibite per il genere femminile): amministratrice unica (amministratore unico), segretaria generale (segretario generale), consigliera comunale (consigliere comunale), l’avvocata (l’avvocato, l’avvocatessa), la medica (il medico), l’architetta (l’architetto), la chirurga (il chirurgo), l’arbitra (l’arbitro), l’ingegnera (l’ingegnere), la magistrata (il magistrato), la prefetta (il prefetto), la rettrice dell’Università (il rettore dell’Università), la notaia (il notaio), la sindaca (il sindaco), la questrice (il questore), la poeta (la poetessa, forma ormai stabilmente entrata nell’uso). In particolare, nei nomi femminili in -essa, viene rilevata una connotazione ironico-spregiativa, che ne interdice l’uso. Dal dizionario vengono dunque depennate parole attualmente inoffensive come vigilessa, professoressa, dottoressa e studentessa (sebbene per queste ultime tre venga poi riconosciuta un’attenuazione del tono ridicolizzante). Va sottolineato che vigilessa ha assunto ormai un significato non sfavorevole, così come le altre forme appena citate. Le raccomandazioni auspicavano invece il sopravvento di parole come la vigile, la professora, la dottrice, la studente.  

Più fortuna hanno avuto le raccomandazioni in merito a parole come la scrittrice in luogo di lo scrittore, la preside invece di il preside, la presidente invece di il presidente, la corrispondente per il corrispondente, la manager per il manager, la parlamentare per il parlamentare, la cancelleria per il cancelliere: tutte forme attecchite nell’uso corrente.  

Altre raccomandazioni hanno dato degli esiti più o meno incerti, non ancora completamente di uso stabile: la giudice o il giudice, la deputata o il deputato, la ministra o il ministro? La risposta è lasciata alla coscienza linguistica (o ideologica) di ciascuno di noi.  

Un paragrafo a parte andrebbe dedicato ai sostantivi che designano cariche militari. Qui, come in nessun altro ambito, le forme femminili sono tutt’oggi praticamente inesistenti. I numerosi sostantivi suggeriti dalla Sabatini, tra cui la marescialla, la capitana, la caporale, la colonnella, la generale, la maggiore, la carabiniera, la 

brigadiere, hanno avuto tutti la medesima sorte: l’inesorabile naufragio (va detto che la carabiniera e la bersagliera esistono già nel linguaggio familiare figurato, ma con senso tutt'altro che adeguato alla carica militare).

Ricordando una frase pronunciata a suo tempo da Irene Pivetti (allora Leghista), quando si è definita «Presidente della Camera», «cittadino» e «cattolico», non possiamo fare a meno, neanche qui, di concludere con qualche punto di domanda: la lingua può essere cambiata con la coercizione, per mezzo cioè di un atto di volontà? Inoltre: è la lingua a condizionare i valori socio-politici di un Paese, o viceversa? E ancora: l’uso “politicamente corretto” della lingua è in grado di liberare una persona dall’oppressione sociale, oppure, come temeva la Presidente (o la Presidentessa? o il Presidente?) della Camera Irene Pivetti, rischia di ridicolizzarla o ghettizzarla?

 

 


UNA NOTARELLA DI ROBERTO TARTAGLIONE
 
Nell’anno 585 a Mâcon, nella Francia centrale, si tenne un sinodo di vescovi cattolici.
Nel libro ottavo della sua Historia Francorum, Gregorio di Tours ci racconta che durante una pausa dei lavori del sinodo, un vescovo pose ai confratelli una ardita questione filologica: il termine latino homo, può essere usato nel senso di "persona umana", cioè riferito a entrambi i sessi, o è da intendersi nel senso ristretto di vir, di maschio?
Su questa storia (manipolata prima dai protestanti e poi anche un po’ dalle femministe più accese) nasce probabilmente la credenza che la Chiesa Cattolica avrebbe ammesso che
"anche le donne hanno un’anima" solo nel Concilio di Trento.

Ma noi, che "se le donne abbiano un’anima" l’abbiamo capito a nostre spese senza bisogno di concili e sinodi, siamo colpiti soprattutto dalla modernità della questione filologica: "uomo" significa solo "uomo" o anche "uomo e donna"? O forse dovremmo fare come gli americani che nel caso di "genere misto" preferiscono usare la parola persona? E se usiamo il termine "persona" non rischieremo di offendere il virilismo dei machi latini, costretti a definirsi con un sostantivo che invece è femminile?
Certo, certo: le donne potranno sostenere che è umiliante che il termine notaio sia solo maschile. Ma che dire dell’umiliazione del nerboruto marine americano costretto a fare la guardia o la sentinella al deposito degli esplosivi?

Per noi che ci occupiamo di grammatica poi, la questione è complicatissima sotto vari aspetti.
Il primo è certamente lessicale: è meglio dire il ministro, la ministra o la ministro? È più corretto il presidente, la presidente o la presidentessa? Ma soprattutto: perché mai "il file" dovrebbe essere maschile e "la directory" invece femminile? (Forse un’allusione all’utero che ci contiene e quindi all’eterno ruolo di donna-madre? O peggio: si tratta forse di una triviale allusione sessuale?)
Il secondo aspetto è quello morfologico: perché (a parte i soliti "radio" e "mano") i nomi in –o sono sempre maschili, mentre i nomi in –a non-femminili (geometra, monarca, panorama, papa e perfino gorgonzola e piranha) sono numerosissimi? E soprattutto perché i nomi ambigui dal punto di vista del genere (il/la giornalista, il/la belga, il/la ginnasta, l’idiota, il/la pediatra, il/la patriota) sono sempre quelli che finiscono con –a? Si tratta forse di un tentativo di indebolire l’identità sessuale dalla –a rispetto alla stabilità maschile della –o?
Infine c’è l’aspetto più genericamente formale. Perché nelle grammatiche si dice sempre "maschile e femminile" e mai "femminile e maschile"? E se dicessimo "femminile e maschile" sarebbe un giusto riconoscimento di parità fra i generi o una maschilistissima forma di cavalleria (del tipo "prima le donne e i bambini"?).

Insomma: alla domanda "è la lingua a condizionare i valori socio-politici di un paese, o sono i valori socio-politici di un paese che condizionano la lingua?" viene certo da rispondere che la seconda possibilità dovrebbe essere quella giusta. Eppure, nonostante le ironie, viene anche da pensare che quando i valori socio-politici di un paese cadono terribilmente in basso, qualunque contributo che tenti almeno di sollevarli un po’ dovrebbe essere accolto con entusiasmo e speranza.